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Categoria: Blog

Tornano gli acquisti in negozio, e-commerce -3,8% in due anni

La quarta edizione della ricerca Migliore Insegna 2024, promossa da Largo Consumo e Ipsos, conferma l’importanza crescente dell’identità di insegna nelle strategie dei Retailer, e segnala il ritorno alla centralità del punto vendita per gli acquisti dei consumatori italiani (+2,5%.).
Si sta infatti raffreddando l’entusiasmo per lo shopping tramite e-commerce delle insegne fisiche (-3,8%), mentre migliorano leggermente le insegne 100% digitali.

La ricerca ha come obiettivo quello di misurare la qualità della relazione tra clienti e 124 insegne, in particolare, riguardo a temi quali offerta, punto vendita, servizio, personale, elementi di identità di insegna (esperienze personalizzate, programma fedeltà, ESG) e forze della relazione (CX Forces di Ipsos).

L’acquisto online non è semplice per tutti

L’esperienza digitale rimane positiva, anche se l’acquisto online non è semplice per tutti, soprattutto quando si parla di spesa alimentare. I consumatori giudicano in modo positivo elementi come facilità di utilizzo e facilità di acquisto, mentre sono meno soddisfatti dei servizio post vendita.
Lo store fisico torna quindi al centro delle scelte dei consumatori, tanto che l’indice di advocacy in un anno è cresciuto del 2,5%.

Proprio in tal senso rispetto al 2023 si registra un calo di quasi il -1% dell’e-commerce delle insegne fisiche e del -3,8% sul 2022.
Il calo maggiore riguarda il settore alimentare e grocery, che scende del -2.9% in un anno. 

Creare un legame emotivo con i clienti è un elemento chiave

L’unicità dell’insegna e la sua capacità di creare un legame emotivo con i clienti diventa un elemento chiave per garantire differenziazione e aumentare la forza dell’insegna.

Un trend a sorpresa riguarda invece i giudizi sugli aspetti funzionali dell’esperienza di acquisto. Assortimento e qualità dei prodotti, da sempre i punti di forza della distribuzione italiana, segnano un lento costante calo e non sono mai stati così bassi dal 2021.
Nel dettaglio, i giudizi medi sull’identità di insegna sono cresciuti costantemente, aumentando del 6% dal 2021 a oggi, mentre la soddisfazione funzionale (prezzi, promozioni, qualità prodotti, assortimento, assistenza all’acquisto, aspetto dei negozi) dal 2021 a oggi è diminuita dell’1,6%.

Categorie vincenti, erboristerie, librerie, gioiellerie

I clienti sono soddisfatti dei negozi che riconoscono essere accessibili, con comodi parcheggi e con un buon assortimento. Gli aspetti meno graditi, a parte prezzi e promozioni che in tempi di incertezza e inflazione sono prevedibili, sono relativi ad alcuni aspetti di servizio in negozio, un’area su cui fare attenzione.

Il personale quando è presente è cortese e competente, ma la presenza del personale e l’assistenza all’acquisto sono le aree di miglioramento.
Dall’indagine emerge poi come le categorie di insegne più consigliate dai consumatori italiani siano erboristerie, librerie e gioiellerie, e non solo perché evidenziano una forte componente di vendita assistita.
Sono queste le categorie che stanno lavorando per mettere davvero il cliente ‘al centro’ e creare una connessione emotiva.

Doggy Bag, un italiano su 2 la chiede al ristorante

La doggy bag non è più un tabù in Italia. Secndo i i nuovi dati dell’Osservatorio Waste Watcher International, quasi un italiano su 2, il 47% degli intervistati, chiede di trovare la doggy bag di default al ristorante. E uno su 3, il 32%, consiglia di dotarsi di bag riutilizzabili ed eco-compatibili.

Il 26%, inoltre, suggerisce ai ristoratori di fornire un opuscolo con consigli per il consumo a casa degli avanzi e la creazione di nuovi piatti a partire dal cibo avanzato. Mentre è solo una minima parte dei consumatori italiani, il 5 %, a suggeriree di ridurre le porzioni servite, e solo il 3% sostiene che non accetterebbe di portarsi a casa il cibo avanzato. Nel frattempo, alla Camera, si discute la proposta di legge per rendere obbligatorie le doggy bag nei ristoranti.

Meglio usare il termine “family bag”

I dati della ricerca sono stati resi pubblici da Andrea Segré, l’economista e divulgatore fondatore del movimento e della campagna Spreco Zero. Con una raccomandazione importante: “non chiamiamole doggy bag, borse per il cane – spiega all’ANSA Segré – perché si rischia di togliere valore al gesto del recupero del cibo e di scoraggiare il recupero. Con il Ministero dell’Ambiente, qualche anno fa, abbiamo proposto il termine family bag, che restituisce una visione anche domestica della prevenzione dello spreco alimentare”.

I tempi sono maturi. Ma chi paga il costo della borsa?

I dati Waste Watcher International del 2023 stimano uno spreco domestico pro-capite settimanale di circa 500 grammi.
I tempi sono quindi maturi perché questa pratica diventi consuetudine nei ristoranti italiani, senza bisogno di chiederla, come appunto una buona pratica comune.

La parola chiave, anche in questo caso, è prevenzione, ovvero, evitare di lasciare gli avanzi nel piatto. Si pone però un problema di cui nessuno parla: chi paga i costi della bag?
Se si vuole essere sostenibili la bag dovrà essere in materiale perfettamente riciclabile, e è a totale carico del ristoratore “la vedo assai difficile”, commenta Segré.

In attesa della Giornata nazionale di Prevenzione dello spreco alimentare

“Mentre se la deve pagare il consumatore, con l’incremento dei costi, è ancora peggio – aggiunge l’economista -. Per evitare costi troppo elevati nella fornitura della family bag un’idea condivisa dal 32% degli intervistati è proporre confezioni, buste che possono essere riutilizzate dal cliente, ad esempio sacchetti di stoffa. Prima di presentare questo tipo di progetti bisognerebbe interrogarsi perché finora gli altri non hanno funzionato”.

Intanto, il 5 febbraio sarà la Giornata nazionale di Prevenzione dello spreco alimentare, durante la quale sarà lanciato il nuovo Osservatorio sugli sprechi nella ristorazione italiana, attraverso l’app istituzionale ‘Sprecometro’, scaricabile gratuitamente da tutti.

e-commerce: tra Black Friday e Cyber Monday sarà di 2 miliardi la spesa degli italiani

Nei giorni compresi tra il Black Friday e il Cyber Monday, quest’anno gli italiani spenderanno online circa 2 miliardi di euro, il +8% rispetto al 2022. In questa occasione, gli operatori particolarmente competitivi realizzeranno anche 5 volte il fatturato di un giorno medio.
I settori più interessati da queste iniziative saranno abbigliamento, informatica ed elettronica, giocattoli, gioielli, profumi, e prodotti per la cura del corpo. Ma anche oggetti di arredamento, prodotti enogastronomici, ticketing per eventi e viaggi.

A quanto emerge dall’Osservatorio eCommerce B2c di Netcomm e Politecnico di Milano, due sono le principali considerazioni sul tasso di crescita di quest’anno. Se gran parte di questo incremento è spiegato dall’inflazione, “c’è molta incertezza sulla reale capacità di alcuni merchant di raggiungere il target prefissato”, commenta Valentina Pontiggia, direttrice dell’Osservatorio. 

Un 2023 meno dinamico ed esplosivo

“Già nel 2022 le previsioni per il Black Friday si sono infatti dimostrate troppo ottimistiche, con un valore a consuntivo che ha raggiunto gli 1,85 miliardi di euro rispetto a una stima previsionale di circa 2 miliardi”, sottolinea Pontiggia.

Anche in questo periodo, tradizionalmente molto positivo per l’e-commerce, il canale online, pur continuando a crescere con un ritmo superiore al Retail totale, risulta meno dinamico ed esplosivo, più vicino agli andamenti del commercio fisico. Gli acquisti online, compresi fra il 24 e il 27 novembre, cresceranno infatti solamente del +8% rispetto a un CAGR (Compounded Average Growth Rate) negli ultimi cinque anni pari al +18%.

Politiche promozionali non cambiano

In Italia, e all’estero, le iniziative promozionali non si limitano esclusivamente al week-end del Black Friday. È ormai evidente che prolungare il momento degli sconti è un ottimo metodo per rendere queste occasioni di acquisto più efficaci verso i consumatori, e più utili per i merchant. Consente infatti di attirare un numero crescente di utenti e distribuire i prodotti su un arco temporale più esteso.

Rispetto agli anni precedenti, però, non cambiano le politiche promozionali. Si varia dallo sconto fisso su tutto il carrello allo sconto percentuale su una gamma o tutta la gamma di prodotti, fino al premio a fronte del superamento di una definita soglia di spesa o all’offerta della spedizione gratuita.

Obiettivo: preservare i margini

Nella maggior parte delle iniziative, non sono previste politiche di sconto più aggressive rispetto agli anni precedenti.
Da un punto di vista economico, l’obiettivo non è solo migliorare i ricavi, ma anche preservare i margini.

“Ciò che distingue il Black Friday nel 2023 dovrebbe essere la maggior trasparenza di informazioni negli annunci di riduzione dei prezzi, in ottica di tutela del consumatore: si tratta infatti del primo Black Friday nell’era della Direttiva Omnibus – aggiunge Valentina Pontiggia -. Il decreto ha introdotto per i merchant una serie di nuove disposizioni in materia di indicazione di annunci relativi alla riduzione dei prezzi nel corso delle campagne promozionali, e ha arricchito la lista delle pratiche commerciali scorrette”.

Studiare? Costa caro: aumentano le richieste di prestiti per l’istruzione

Nel corso dei primi otto mesi del 2023, gli italiani hanno ottenuto prestiti personali per un valore superiore a 220 milioni di euro per far fronte alle spese legate all’istruzione, all’università e, in generale, alla formazione. Questa analisi è stata condotta su un campione di oltre 260.000 richieste di finanziamento raccolte online da Facile.it e Prestiti.it, e ha rivelato due tendenze principali. Da un lato, l’importo medio richiesto si è attestato a 6.752 euro, registrando una diminuzione del 4% rispetto all’anno precedente. Dall’altro lato, la percentuale di richieste di prestiti destinati all’istruzione è aumentata del 6,2%.

Il prezzo dell’istruzione in Italia? Elevato e in aumento

Il costo dell’istruzione in Italia può essere considerevole e l’aumento dei prezzi nell’ultimo anno ha reso la situazione ancora più difficile per le famiglie. Già dai primi anni scolastici, le spese possono raggiungere centinaia di euro, ma quando si parla di corsi universitari o post-universitari, i costi possono essere notevolmente più elevati. Aligi Scotti, Responsabile Business Unit Prestiti di Facile.it, spiega che un prestito personale può rappresentare una soluzione per alleggerire il carico finanziario su una famiglia e permette di continuare a investire nell’istruzione senza dover rinunciare alla formazione.

Le richieste dal 3 a 5mila euro sono il 31%

Guardando più nel dettaglio le cifre richieste per finanziamenti legati all’istruzione, emerge che quasi un terzo delle richieste mirava a ottenere meno di 3.000 euro. Le richieste di importo medio, comprese tra 3.000 e 5.000 euro, sono state le più numerose, rappresentando il 31% del totale (rispetto al 26% dell’anno precedente). Al contrario, le richieste superiori a 10.000 euro sono diminuite del 10% su base annua.

Aumentano le richieste da parte degli under 26

Nell’analizzare il profilo dei richiedenti prestiti personali per sostenere spese di istruzione e formazione, emerge che l’età media dei richiedenti è di 35 anni, mentre i giovani sotto i 26 anni costituiscono il 30% delle richieste, con un aumento di quasi 5 punti percentuali rispetto all’anno precedente. I prestiti per l’istruzione sono molto richiesti non solo dai giovani, ma anche dalle donne; le richieste femminili rappresentano il 41% del totale, un dato significativo considerando che, nel complesso delle richieste di prestiti, le donne costituiscono meno del 27%.

Studiare costa

In sintesi, l’analisi dei dati evidenzia come sempre più italiani si affidino ai prestiti personali per finanziare l’istruzione e la formazione, alla luce dei crescenti costi educativi, e come ci sia una maggiore varietà nelle cifre richieste, con un’attenzione particolare da parte dei giovani e delle donne a questa tipologia di finanziamento.

La spesa degli italiani è meno “junk” e più bio

La spesa degli italiani diventa sempre più ‘sana’ e sostenibile. Nel carrello del post-pandemia gli italiani puntano infatti soprattutto sulla qualità della propria spesa alimentare, e oggi comprano il 10,5% in più di alimenti sostenibili certificati, il 7,5% in più di alimenti biologici e a km zero, mentre riducono i cibi pronti e confezionati (-5,2%) e i cosiddetti prodotti ‘junk food’, ovvero i cibi spazzatura (-4,4%). Sono alcuni dati emersi dai risultati del rapporto ‘La (R)evoluzione sostenibile della filiera agroalimentare’, presentato durante il 7° forum dal titolo ‘La Roadmap del futuro per il Food&Beverage: quali evoluzioni e quali sfide per i prossimi anni’, organizzato da The European House-Ambrosetti.

La sostenibilità inizia dalla produzione

Per il 73% dei consumatori un prodotto è sostenibile quando il suo processo di produzione è sostenibile. Subito dopo conta la sostenibilità del packaging (40,3%), e l’80% dei consumatori è disposto a spendere un po’ di più per acquistarlo. Oltre un terzo spenderebbe meno del 5% in più, mentre poco meno del 5% è disposto a spendere oltre il 30% in più. Secondo la ricerca, anche per le imprese un prodotto diventa sostenibile soprattutto nella sua fase di produzione: lo sostiene il 38,9% delle 500 aziende del settore Food&Beverage coinvolte. Ma per molte aziende (32,3%) è invece l’alta qualità delle materie prime il fattore principale di sostenibilità. Di fatto, nei piani dei prossimi 3-5 anni le aziende dichiarano di voler dedicare maggiore attenzione soprattutto alla sostenibilità della produzione (12,7%) e alla riduzione degli sprechi (13,7%).

Un contrasto efficace al rincaro dei prezzi agroalimentari

“L’adozione di comportamenti più sostenibili nel carrello della spesa può anche essere un efficace contrasto all’attuale rincaro dei prezzi agroalimentari – ha spiegato Benedetta Brioschi, Associate Partner e Responsabile Food&Retail, The European House-Ambrosetti -. I consumatori italiani si comportano in base alle rispettive disponibilità economiche: le famiglie meno abbienti si sono orientate verso la riduzione degli sprechi alimentari nel 17,4% dei casi, quelle famiglie più abbienti, invece, acquistano maggiormente prodotti che possano salvaguardare il proprio benessere nel 33,3% dei casi”.

Ma ancora in pochi conoscono la dieta mediterranea

“Le abitudini d’acquisto stanno cambiando con una graduale e maggiore attenzione ai temi della salute – ha aggiunto Benedetta Brioschi -, ma nel Paese bisogna ancora lavorare sugli aspetti culturali: solo il 17,3% dei cittadini sa che la dieta mediterranea prescrive il consumo di almeno 5 porzioni giornaliere di frutta e verdura. E solo il 5% mette in pratica questi dettami, anche se siamo i primi esportatori di alcuni prodotti alla base di questo tipo di alimentazione”.

I direttori del personale sono favorevoli alla settimana corta?

I professionisti delle risorse umane sono divisi sulla settimana corta, con una leggera prevalenza di chi esprime una valutazione positiva. Il 53% dei direttori del personale si dichiara infatti d’accordo sull’introduzione della settimana corta con 5 o 4 giorni lavorativi, mentre il 40% lo è solo parzialmente e il 6% non è favorevole. Tra le principali ragioni dei favorevoli, il 79% indica la possibilità di migliorare la conciliazione vita-lavoro, per il 49% aumenterebbe il benessere psico-fisico dei dipendenti e per il 27% circa la motivazione al lavoro dei dipendenti. Lo conferma Aidp, l’Associazione italiana per la direzione del personale, che ha condotto una survey curata dal proprio Centro ricerche.

Criticità e difficoltà

Coloro che hanno espresso una parziale adesione alla settimana corta tra le criticità sottolineano soprattutto la necessità di definire una misura della produttività basata sulle performance, con linee guida definite dalla contrattazione nazionale (41%), oltre alla valutazione preliminare della sostenibilità economica (34%) e le difficoltà a livello di implementazione organizzativa (25%).
Coloro che hanno espresso una netta contrarietà sottolineano soprattutto tre difficoltà: la non compatibilità con la situazione economico-produttiva delle imprese (50%), la difficile implementazione a livello organizzativo (37%) e il fatto che la settimana corta implicherebbe un orario di lavoro giornaliero di 9/10 ore (28%).

Iniziare con soluzioni sperimentali

Ma quale sarebbe la migliore modalità per implementare la settimana corta nella propria azienda? A questa domanda il 62% dei direttori del personale risponde che partirebbe con soluzioni sperimentali, così come già avvento in altre aziende. Molto importante, inoltre, il tema della contrattazione con i lavoratori attraverso una contrattazione a livello aziendale (33%) o riportando la questione anche a livello di contrattazione nazionale (24%). Rispetto al tema del salario, riferisce Adnkronos, il 26% circa manterrebbe lo stesso salario riducendo i giorni, mentre circa l’8% ridurrebbe parzialmente lo stipendio in proporzione alle giornate lavorate, e il 20% manterrebbe lo stesso numero di ore contrattuali riducendo i giorni.

“Una decisione standard potrebbe avere ricadute negative”

“Se da un lato – spiega Matilde Marandola, presidente nazionale Aidp – le ricadute positive sui lavoratori in termini di migliore equilibro e qualità del rapporto vita-lavoro sarebbero evidenti, oltre all’impatto che questo avrebbe in termini di maggiore produttività, dall’altro gli aspetti di natura retributiva e organizzativa che tale soluzione comporterebbe sono ancora da valutare. Quindi, seppur culturalmente siamo favorevoli nei confronti della settimana corta, è sempre importante comprendere e ascoltare le situazioni delle singole aziende e delle singole persone. Una decisione standard e uguale per tutti potrebbe avere ricadute negative sulla motivazione, sulla retention e sull’economia. Per queste ragioni la via della sperimentazione è quella maestra per verificare e testare la reale e virtuosa fattibilità di un’introduzione a regime”.

Addio lettere e numeri: le password del futuro saranno immagini 

Le password fatte di immagini sono più sicure di quelle alfanumeriche? Secondo uno studio condotto dai computer scientist dell’Università di Surrey la risposta è sì. I ricercatori inglesi hanno infatti mostrato l’efficacia di un sistema di autenticazione basato su immagini chiamato Tim (Transparent image moving) per i telefoni cellulari al fine di ridurre il rischio di attacchi esterni, quelli di ‘shoulder surfing’. Di fatto, è ora che il mondo si allontani dalle password basate su lettere e numeri e dalle verifiche per i telefoni cellulari, e inizi ad abbracciare soluzioni più sicure basate su immagini. Come quelle di Tim, che richiede agli utenti di selezionare e spostare immagini predefinite in una posizione designata per superare i controlli di autenticazione. Un po’ come accade per i siti di shopping online.

Più protezione dagli attacchi di shoulder surfing

Lo studio ha riscontrato che l’85% degli utenti ritiene che possa aiutare a prevenire il guessing delle password e gli attacchi di shoulder surfing. Lo shoulder surfing è un attacco in cui qualcuno registra informazioni sensibili, come password o numeri di carte di credito, inseriti da una vittima sullo schermo di un computer o di un dispositivo mobile, guardando sopra la spalla della vittima o da una certa distanza. Gli attacchi di shoulder surfing spesso si verificano in luoghi pubblici affollati come aeroporti, caffè o mezzi pubblici.

Un’autenticazione interattiva e meno vulnerabile

Lo studio ha inoltre scoperto che il 71% dei partecipanti ritiene che Tim sia una soluzione basata su immagini più utilizzabile rispetto ad altre presenti sul mercato.
“Trascorriamo gran parte della nostra vita sui nostri telefoni cellulari e dipendiamo da essi per attività come la banca, lo shopping e per rimanere in contatto con i nostri cari – commenta Rizwan Asghar, coautore del paper per l’Università di Surrey -. È sorprendente quanto poco sia stato fatto in termini di innovazione e progresso per proteggere queste attività e le nostre informazioni più private. Crediamo che i processi di autenticazione basati su immagini e interattivi come Tim rappresentino un passo nella giusta direzione”.

Le opzioni basate su testo offrono compromessi tra usabilità e sicurezza

“Lo status quo attuale basato su testo offre compromessi tra usabilità e sicurezza – continua Asghar -. Mentre le password basate su testo breve sono facili da ricordare, non sono sufficientemente sicure e rendono vulnerabile al guessing delle password o agli attacchi di shoulder surfing”.
Al contrario, riporta Agi, le password basate su testi lunghi sono vincenti in termini di sicurezza, ma sono incredibilmente difficili per gli utenti da ricordare.
“È promettente che molti dei nostri partecipanti abbiano trovato Tim utilizzabile e non abbiano trovato la curva di apprendimento troppo ripida – aggiunge Asghar -. Ciò suggerisce che il mercato potrebbe essere pronto per alternative basate su immagini per la sicurezza dei dispositivi mobili”. 

ChatGPT comporta rischi informatici per gli utenti?

Per molti è una rivoluzione tecnologica che stravolgerà l’intera società, altri si chiedono se sia pericoloso per la sicurezza e l’integrità delle persone online e offline. Ultimamente si parla molto di ChatGPT, il prototipo di chatbot realizzato da OpenAI basato su AI e machine learning che simula il linguaggio umano e con cui è possibile conversare. Di fatto, negli ultimi mesi esperti di tutti i campi hanno messo alla prova ChatGPT, e alcuni hanno sollevato dubbi sulla sicurezza informatica, sostenendo che possa essere utilizzato per creare nuovi malware e nuove minacce informatiche per gli utenti. ChatGPT potrebbe infatti essere utilizzato da criminali informatici per rendere più efficaci i cyber attacchi.

Un trasformatore pre-addestrato generativo

Ma cos’è esattamente ChatGPT? L’acronimo GPT (Generative Pre-trained Transformer) significa letteralmente ‘trasformatore pre-addestrato generativo’. I transformer sono un tipo avanzato di modelli di linguaggio basati su machine learning. In particolare, ChatGPT è l’evoluzione di un modello anteriore chiamato GPT-3.5, ottenuto tramite apprendimento supervisionato e apprendimento per rinforzo. Le applicazioni pratiche di GPT sono molte: chatbot personalizzata, traduzione automatica, creazione e analisi di contenuti, produzione di notizie e contenuti informativi, completamento e suggerimento di testo, sintesi vocale e comprensione del testo. In queste ultime fasi di apprendimento dello strumento sono intervenuti esseri umani che hanno addestrato il modello interagendo con esso e alimentandolo con le proprie conversazioni. In seguito a questi miglioramenti, ChatGPT fornisce risposte più articolate, pertinenti e reali.

Phishing, script dannosi, malware, social engineering

Panda Security ha individuato 3 principali pericoli di cybersicurezza legati a ChatGPT: email di phishing, script dannosi e malware, e social engineering. ChatGPT potrebbe essere infatti utilizzato per scrivere e-mail e testi per siti di phishing senza i soliti errori ortografici che aiutano a riconoscere i tentativi di phishing. Inoltre, se ChatGPT ha una funzionalità di moderazione dei contenuti che risponde ai criteri morali dei suoi sviluppatori, se venisse alimentato con stringhe di codice dannoso sarebbe in grado di replicarle e combinarle.
Potenzialmente, poi, è possibile fare domande a ChatGPT e ottenere informazioni per confezionare un attacco di spear phishing o social engineering ai danni di una persona. Tutto dipende da quante informazioni sono online e vengono incluse nel feeding del modello.

I cybercriminali ne hanno già approfittato

Di fatto, i cybercriminali ne hanno già approfittato. Hanno infatti elaborato una campagna sui social network dove hanno creato account simili a quelli ufficiali di OpenAI, che però promuovono download di un programma fittizio come client desktop per ChatGPT. Scaricato come un file eseguibile, apparentemente il programma non completa il processo di installazione. In realtà, prosegue all’insaputa dell’utente installando un Trojan stealer progettato per rubare informazioni relative agli account salvati sui browser. In particolare, cookie e credenziali di accesso dagli account di Facebook, TikTok e Google (soprattutto quelli riconducibili ad aziende per ottenere informazioni sensibili aggiuntive).

Internet, nel 2022 rallenta il dominio .it

Secondo i dati rilevati dal Registro .it, l’organo tecnico dell’Istituto di Informatica e Telematica del Cnr e anagrafe dei domini a targa italiana, per il web nostrano il 2022 è un anno di stasi fisiologica. Le nuove registrazioni sono in calo del 13% rispetto al 2021, e sono ‘solo’ 475.768 i nuovi domini .it registrati (+0,50%), per un totale di 3.467.693 domini .it attualmente in Rete.
Un andamento simile si era già visto negli anni della crisi del 2008, quando incertezza ed emergenza economica avevano fatto segnare tassi bassissimi di presenza .it in Rete, per poi risalire a partire dal 2010-2011. Registro .it ipotizza quindi che il dato del 2022 sia stato influenzato anche dagli ultimi avvenimenti internazionali, tra emergenza sanitaria ancora in corso, crisi geopolitiche e ricadute in tutto il mondo su consumi e imprese.

Tutti giù, tranne liberi professionisti e “stranieri”

A conferma di un’annata di stasi è anche il calo generale nelle categorie monitorate mensilmente da Registro .it. Da gennaio a ottobre 2022 diminuiscono quasi tutti i settori: le registrazioni attribuite a persone fisiche scendono del 29% rispetto allo stesso periodo del 2021, quelle relative a imprese -14,7%, enti pubblici -13,9%, e no profit -14,5%. In positivo i liberi professionisti (+3,1%), categoria che risponde alle crisi affidandosi al digitale, come aveva fatto nel 2021 (+35%) in risposta alle chiusure del 2020. Inedite del 2022 sono le registrazioni appartenenti alla categoria ‘stranieri’, nuovi domini .it registrati da cittadini e organizzazioni di altri Paesi dell’Unione, oppure da aziende con almeno una sede nella UE. Nel periodo considerato segnano infatti +66,7%.

Over 40 e per oltre tre quarti maschile

Sul totale degli italiani che hanno registrato un dominio .it meno di un quarto è donna: 24,8% contro il 75,1% di rappresentanza maschile, e quanto all’età, la maggior parte è compresa nella fascia dai 42 ai 49 anni per entrambi i sessi. Sempre nel periodo preso in esame dalla rilevazione, emerge poi che il Sud Italia e le Isole continuano a essere il ‘fanalino di coda’ dell’Italia digitale.

La mappa del paese online

Sono le regioni del Centro-Nord ad avere il tasso di penetrazione più alto all’interno del Paese, con in testa Trentino-Alto Adige, Lombardia e Valle d’Aosta. In coda, Basilicata, Sicilia e Calabria. Una situazione molto simile anche per le province, dove Milano ottiene il primato per tasso di penetrazione, con 559 domini ogni 10.000 abitanti, seguita da Bolzano (495), Firenze (462), Rimini (451) e Bologna (443). In coda alla rilevazione, le province del Sud e delle Isole, ben al di sotto della media nazionale (307) e che occupano tutte le ultime dieci posizioni, con Crotone (170), Caltanissetta (154) ed Enna (146) ultime in classifica. Nel complesso, è il Nord ad avere in media il tasso di penetrazione più alto del Paese, con 384,9 domini ogni 10.000 abitanti, seguito dal Centro (378,1) e dal Sud e le Isole (236,4).

I trend del 2023 secondo Accenture

In anni complicati come quelli che stiamo vivendo, c’è però una costante. E’ il crescente accesso alla tecnologia da parte di un bacino sempre più ampio di persone. In particolare, diventano già “facili” le tecnologie emergenti, come l’intelligenza artificiale, il web3 e la tokenizzazione. Processi che stanno dando il via ad una nuova era per la creatività, la società e la privacy. Anche le imprese non possono e non devono stare a guardare i cambiamenti in atto. A dirlo è il rapporto “Accenture Life Trends 2023” per le aziende e la loro leadership è necessario prepararsi a modificare i modelli di business, per mantenere il passo con il cambiamento dei comportamenti dei clienti, che trovano sempre più valore nelle nuove tecnologie emergenti. Il report individua cinque macro-movimenti globali del comportamento umano che plasmeranno il business, la cultura e la società nel prossimo anno.

Le tendenze del 2023

Per illustrare i cinque trend i designer di Accenture Song hanno fatto uso dell’intelligenza artificiale, attraverso Midjourney. Grazie a conoscenza, visione, intuizioni e informazioni raccolte dalla rete globale di designer, creativi, tecnologi, sociologi e antropologi di Accenture Song, le previsioni annuali – che hanno sfruttato l’intelligenza artificiale per la creazione delle immagini del rapporto – individuano cinque tendenze per il 2023.

Dalla crisi permanente alla fidelizzazione 

La prima tendenza parte dal presupposto che siamo in una crisi permanente, ma ci adatteremo, così come fa l’umanità da millenni, le persone si adattano all’instabilità, oscillando tra quattro possibili risposte: lotta, fuga, concentrazione e immobilità, scelte che influenzeranno gli acquisti e il modo in cui considerano i brand e i loro dipendenti – e le aziende devono essere pronte. Naturalmente in un mondo così instabile le persone cercano “luoghi”/gruppi, a cui sentono di appartenere. Di conseguenza, i brand moderni saranno costruiti prima di tutto come comunità, ridisegnando la fedeltà e il coinvolgimento con il marchio. 

I benefici intangibili del lavoro e la creatività dell’intelligenza artificiale

Mentre continua il dibattito sul ritorno in ufficio, una cosa è chiara: per molti non è ancora un successo. Tutti hanno sentito la perdita dei benefici intangibili dell’ufficio, come gli incontri casuali con i colleghi e la possibilità di guidare in maniera costante e ravvicinata di giovani talenti. Ora le conseguenze di questa perdita diventano chiare. Senza il coinvolgimento personale, le aziende rischiano di perdere mentorship, innovazione, cultura e capacità di inclusione. È ora che i leader ricomincino a pensare a un piano che offra benefici a dipendenti e aziende. Quarto trend è l’intelligenza artificiale, che sempre più diventa un nuovo strumento del processo creativo per tutti. Anche gli sviluppi nell’ambito dell’IA stanno arrivando sul mercato a una velocità sorprendente. In scala, si tratta di una svolta incredibile per la creatività. Le aziende devono considerare come distinguersi nel marasma di contenuti generati dall’IA e come utilizzare l’IA per migliorare la velocità e l’originalità dell’innovazione.

Dati personali al sicuro
I portafogli digitali potrebbero porre fine alla crisi dell’identità digitale. I portafogli digitali contenenti token (che rappresentano metodi di pagamento, documenti d’identità, carte fedeltà e altro ancora) consentiranno alle persone di decidere quanti dati condividere con aziende e perfino di venderli a queste ultime. Questa è un’ottima notizia per i brand: i dati che le persone forniranno direttamente saranno ancora più preziosi delle informazioni di terze parti, che non saranno più raccolte in un mondo senza cookie.